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Storia del rock: I Pearl Jam

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Quando parliamo di musica a stelle e strisce, una delle città più importanti è sicuramente Seattle, culla di grandissimi musicisti che hanno scritto la storia del Rock come noi lo conosciamo; scontato citare due su tutti, ossia Jimi Hendrix e Kurt Cobain, rispettivamente il Dio della chitarra ed il Dio del Grounge.

Seattle è sempre stata la città che ha ispirato grandi musicisti anche fuori dal distretto di Washington, perché comunque, quando un dato contesto porta così tanto alla musica in generale, una tappa ispiratrice, diventa d’obbligo per musicisti e non.
Spostiamoci però negli anni 80, per raccontare la storia di uno dei gruppi più importanti che ha dato, quasi in contemporanea, una delle tre vie del Grunge, insieme ai Nirvana e gli Alice in Chains… I Pearl Jam.

La storia dei Pearl Jam parte da lontano, dal 1984, anno in cui il bassista Jeff Ament e Mark Arm (poi frontman dei Mudhoney) formano i Green River, gruppo rock che in quel di Seattle influenzò molto la cultura musicale del tempo.

Ai Green River, lo stesso anno, si aggiunge il chitarrista Stone Gossard e il batterista Alex Vincent. Incidono due album in tre anni, ma la scelta sulle case discografiche (Jeff e Ston a favore della Major, Alex e Mark per le Lebel) porta i gruppo a prendere strade differenti.
Dalle ceneri dei Green River, nascono i Mother Love Bone, composti da Andy Wood, Stone Gossard, Jeff Ament, Bruce Fairweather e Greg Gilmore. Dopo l’Ep “Shine” del 1989, il gruppo ha in preparazione l’album di esordio, “Apple”, ma il 16 marzo 1990 muore per overdose di eroina il cantante Andy Wood.

Il disco uscirà ugualmente postumo per la Polydor, ma, nonostante il contratto con una major, i componenti della band, distrutti dal tragico evento, decidono di abbandonare il progetto. Dopo alcune esperienze musicali poco impegnative, Ament si ritrova con Gossard, e i due, insieme al chitarrista Mike McCready, da poco conosciuto nell’ambiente di Seattle, e a Matt Cameron (ora batterista dei Soundgarden), incidono un nastro contenente il materiale che di lì a poco sarebbe diventato la musica dei Pearl Jam.

Nel frattempo Dave Krusen rimpiazza Cameron (che appunto aveva ripreso a suonare con il suo vecchio gruppo) alla batteria e il demo finisce nelle mani di Jack Irons, ex drummer dei Red Hot Chili Peppers, il quale lo consegna a tale Eddie Vedder, un amico di vecchia data che lavora a una pompa di benzina a San Diego e passa il tempo libero facendo surf e cantando nei Bad Radio, una band locale.

Vedder ascolta il nastro e resta colpito dal sound, capisce che ha tra le mani qualcosa di nuovo e capisce che deve mettersi subito in contatto con la band. Si butta a capofitto sul progetto, e nel giro di pochi giorni scrive le parti vocali e i testi dei brani (quelli che diventeranno “Alive”, “Footsteps” e “Once”) arrivatigli da Seattle, in una sorta di mini-opera sulle vicende della sua adolescenza, dal nome “Mamasan”.

Nell’arco di pochissimo tempo, dopo la reazione entusiasta dei mittenti, parte per la città del grunge, dove, altrettanto celermente, avviene la stesura dei brani di Ten, il primo album del gruppo. I Pearl Jam, nascono tramite lettere tra la band e quello che sarebbe diventato il cantante del gruppo!

Siamo negli anni novanta, ed i quattro più il nuovo arrivato Vedder, iniziano a pensare più che altro al nome da darsi, perché la musica ed i testi avevano già quella sintonia, quel legame degno di un credo animista.

Il primo nome che si danno è Mookie Blaylock, come un famoso giocatore di basket dei New Jersey Nets. L’idea sembrava però troppo limitata, in quanto avrebbero voluto esprimere, anche attraverso il nome, qualcosa di più “psichedelico”. Eddie si fa venire l’idea: Pearl Jam! Il nome nasce da una marmellata allucinogena (Jam appunto) che la nonna di Vedder, che si chiamava Pearl, preparava con il peyote per il marito indiano, secondo i canoni e la tradizione dei popoli nativi americani. Il nome era scelto, ma quasi per riconoscenza, al vecchio e fugace nome, intitolarono il primo album “Ten” per omaggiare Blaylock che appunto portava il dieci come numero di maglia.

Prima dell’esordio vero e proprio dei Pearl Jam, nel 1990 Vedder, Ament, McCready e Gossard prendono parte, su invito di Chris Cornell e Matt Camenron dei Soundgarden al progetto Temple Of The Dog, concepito in memoria dello scomparso Andy Wood.

Il disco, inizialmente recepito tiepidamente, diventerà un bestseller dopo l’esplosione del Seattle sound ( Seattle Sound sarebbe Grunge, ma se andate a Seattle, fidatevi, chiamatelo così).

Prima del lancio vero e proprio prestano la propria musica per colonne sonore in un paio di film, come ad esempio “Singles”; tutto un preludio per l’anno 1991.

Tra Marzo ed Aprile effettuano le prime riprese ed incidono nel London Bridge Studios il loro primo Album, targato Epic.

Il disco, tutt’ora viene definito un capolavoro del rock reazionario degno della scena di Seattle.

I Pearl Jam aprono la loro carriera nel migliore dei modi. Le critiche sono più che positive: la batteria richiama John Bonham, gli assoli di chitarra sono un doveroso omaggio ad Hendrix, e la voce di Vedder viene da subito paragonata a quella del grande Tim Buckley, per via di un lirismo dimostrato e non ostentato, in tracce come “Ocean”.

L’album è di rara bellezza, ogni traccia rispiecchia uno stile Seattle che però viene interpretato secondo canoni diversi, seppur non ancora del tutto innovativi.

Ten è un disco che riesce a trasmettere, anche nei momenti più Seattle Sound del disco, un’atmosfera malinconica e disillusa, a volte quasi depressa, tipica della poetica Grunge.

Anche per quanto riguarda i testi di Vedder: Seppur a volte vi siano riferimenti a vicende realmente accadute (“Jeremy” e “Why go”), e quindi emerga una sorta di impegno sociale della band, le parole dei Pearl Jam sembrano quasi fini a se stesse, come amara constatazione dei fatti seguita da un timido accenno di ribellione, ma fondamentalmente in pieno stile Seattle rappresentano nichilismo impotenza e rassegnazione.

Il discorso è ancora più accentuato quando oggetto dei versi di Vedder sono riflessioni più intimiste, a tratti ermetiche, o storie che in qualche modo traggono spunto dalla sue travagliate vicende adolescenziali, come dimostra il testo di “Alive” che tratta del dramma di un adolescente (Vedder appunto) nel momento in cui scopre di non aver mai conosciuto il suo vero padre, se non dopo la sua morte.

L’esordio dei Pearl Jam si discosta in maniera massiccia dai lavori degli altri gruppi di Seattle: nulla a che vedere con la furia punk dei Nirvana o con l’heavy suond di Alice In Chains e Soundgarden. Si può affermare che i Pearl Jam sono il lato hard rock “seventies” del fenomeno grunge, movimento che si contraddistingue per la sua origine geografica e per il malessere di fondo, tipico della disillusione post anni ’70, più che per le caratteristiche formali della musica che ne è comunque l’espressione.


Di fatto comunque, Ten catapulta i Pearl Jam nell’olimpo del rock nel giro di pochi mesi, con oltre 10 milioni di copie vendute, anche in considerazione del fatto che la sua uscita coincide, con l’esplosione del Grunge, e segue di poco la pubblicazione di “Nevermind” dei “compaesani” Nirvana, con cui fin da subito si instaurò un rapporto di amicizia e sana rivalità.


Intanto, subito dopo l’uscita del primo Album, Krusen lascia il gruppo, rimpiazzato prima da Matt Chamberlain e poi definitivamente da Dave Abruzzese.
Il lavoro dei PJ è in continuo fermento, e dopo concerti in giro per il mondo, nel ’93, inizia il lavoro di Five Against One, poi ribattezzato definitivamente “Vs.”.

Il produttore questa volta è O’Brian (Aerosmith, RHCP), e questo cambio porta una svolta nel modo di lavorare: i brani del disco vengono praticamente suonati Live, con “takes” e sovrascrizioni ridotte al minimo. E gli effetti sono percepibili fin da subito.

Vs suona molto più crudo e vigoroso, meno artefatto. Nei brani più marcati (“Go”, “Animal”, “Blood”) continuano a sentirsi le influenze dei guru del rock vecchio stampo (Led Zeppelin, Hendrix, MC5), ma compaiono anche alcune ballate che richiamano in modo piuttosto evidente i Rem. (“Daughter”, “Ederly woman behind the counter in a small town”).

Vs. è senza alcun dubbio l’album più introspettivo della band; è come se quell’adolescente in Ten fosse cresciuto, e si sia portato dietro insicurezze e rimorsi, come si percepisce in “Indifference” e “Dissident”.


Vedder riesce qui a tirare il meglio di se, diventando sempre più frontman della band, grazie alla sua voce che riesce a creare una sorta di empatia con l’ascoltatore, che riesce a comprendere benissimo “l’abbandono” delle parole, e la malinconia della musica che raffigura in pieno l’esatto stato d’animo dell’ormai uomo che da Ten, è ora cresciuto.
 L’album (inizialmente pubblicato solo in vinile) vende un milione di copie in una settimana, con le sole prenotazioni, un record destinato a restare imbattuto a lungo.

Vs. come fa capire il titolo stesso, è una sorta di insofferenza ai meccanismi esterni, specie quelli commerciali, ed infatti la band decide di rinunciare ai video dei singoli e lasciare il cd allo stato naturale. La loro musica è un disagio che crea empatia con i fan e non un mezzo meramente promozionale (tutto ciò li portò ad uno scontro con Ticketmaster, reo di guadagnare sul prezzo dei biglietti dei concerti in nero).
Questa insofferenza causò anche scontri interni, culminati con il licenziamento di Abbruzzese, che lasciò spazio a Jack Iron.
Nonostante tutto i Pearl Jam non volevano fermarsi, non era nelle loro intenzioni, ed il passo successivo diventa Vitalogy nel ’94, disco pubblicato inizialmente solo in vinile ed anticipato da “Spin The Black Circe”, brano garage punk che spiazza di netto le aspettative delle radio.

L’album comunque è la logica conseguenza di Vs: Utilizzano la stessa “formula” produttiva”, con un’assonanza un po’ più Heavy, come dimostrano Last Exit, Not For You, Whipping, ma non mancano comunque ballate in pieno stile PJ, come Better Man od Immortality.

L’album è un calderone pieno di energia e sperimentazione, come le canzoni Bugs, dove Vedder aggiunge il suono della fisarmonica, ed “Hey foxymophandlemama, that’s me”, un brano di otto minuti formato da un quasi delirante intreccio di voci e rumori, che testimoniano il momento più psichedelico della carriera dei Pearl Jam.

Il 22 Novembre però, giorno d’uscita dell’album, fu segnato in pieno ed in maniera irreparabile da un altra data: 8 Aprile 1994.

Curt Kobain viene trovato morto nella sua abitazione, con una lettera al suo fianco in cui diceva addio al mondo della musica, ed a quello terreno.

Non era più il tempo del Grunge. Vedder dedica Immortality all’amico scomparso, ma ormai non è rimasto più nulla.

Il suicidio del più grande ideatore di Seattle Sound, costituisce uno spartiacque non solo per la storia del rock anni ’90 ma anche per la storia dei Pearl Jam, che dopo Vitalogy prenderanno sempre più le distanze da quello che resta del movimento grunge per cercare di ritagliarsi uno spazio autonomo all’interno della scena rock.

Per certi versi, infatti, il passo successivo del gruppo costituisce il canto del cigno del movimento Grunge. Si tratta della Self Pollution Radio, una diretta radiofonica officiata dalla band (mai pubblicata ufficialmente ma ampiamente reperibile come bootleg) che vedrà alternarsi, per tutta la notte, esibizioni di Pearl Jam, Soundgarden e, tra gli altri, dei Mad Season. Questi ultimi, un supergruppo formato da Layne Staley degli Alice In Chains, Mike McCready dei Pearl Jam e Barrett Martin degli Screaming Trees, pubblicheranno di lì a poco il notevole “Above” (1995), disco grunge filtrato dal blues e dalla psichedelia.
Quando “cade” un Dio, tutto cessa, ed il Grunge da il suo contributo alla musica nel 1995, ma di fatto, era già cessato il 5 Aprile del 1994, data accertata della morte di Kurt Cobain.

Per il gruppo si trattava ora di trovare nuove strade, consapevoli del fatto che con Kurt se ne andava anche un pezzo di loro. Iniziano con una collaborazione con Neil Young, che porterà alla pubblicazione di Mirror Ball, album però formalmente figlio del canadese per questioni burocratiche.


Si passa al capitolo successivo della band, l’album No Code, tentativo di scrollarsi di dosso il sound che li aveva sempre caratterizzati. Il sound ne esce alleggerito, a tratti punk con la canzone “Lukin”, con assonanze country come “Smile” o “Red Mosquito”.

Non tutte le canzoni tengono fede alla loro maestria, e No Code di certo non è l’album che si ricorda, ma riescono a tirar fuori “Present tense”, uno dei massimi vertici artistici raggiunti dai Pearl Jam in tutta la loro carriera, un concentrato di malinconia, delicatezza, disperazione e poesia.

Il brano è all’insegna del dubbio, dei se dei ma. La canzone è un’introspezione che facciamo tutti e pone queste domande: vi è mai capitato di riflettere e cercare di capire se determinate situazioni si sarebbero svolte diversamente come sarebbe la vostra vita adesso? L ‘avrebbero cambiata in meglio forse?
 Quante volte vi siete dati la colpa per relazioni terminate e vi siete scervellati per capire se le decisioni prese fossero giuste o meno? Forse c’era qualcosa che potevate fare per migliorare o salvare questi rapporti? Siamo in grado di subire e accettare le conseguenze e andare avanti perdonando noi stessi? 
Stiamo imparando qualcosa da questo viaggio continuo che è la vita?
 Il testo riesce a creare un’empatia malinconica, con i dubbi che restano, ma con la sicurezza che c’è qualcun’altro che riesce a capirli.


Nonostante comunque l’album non fosse il loro successo più grande, il gruppo ormai è storia, fa parte dei mostri sacri della musica e nulla riesce più a destabilizzarli, nonostante il loro “sound” inizia a vedere le luci di un tramonto per certi versi fisiologico.

La Band non molla comunque e si rimette subito a lavoro, e arriva al 2 Febbraio del 1998 alla conclusione: esce Yeld, album che segna il ritorno ad un sound più classico seppur più trasformato. Il suono graffiante della chitarra e la persistenza del basso fanno comunque da sfondo alla voce calda e viva di Vedder, che rende il complesso audio più pulito.
Questo disco rappresenta una rivoluzione all’interno della Band. Vedder assume il pieno controllo di testi e Sound, cercando comunque di tener fede alla natura di Ament Gossard Iron e McCready.


I PJ tornano in video dopo 7 lunghi anni di protesta e lotta contro gli speculatori; la band è cresciuta, è molto più adulta nella concezione della vita e dei temi delicati, come con “Do The Evolution”, aspra critica al consumismo e alla società in generale.


Il disco tira fuori la vena romantica ed in parte inespressa di Vedder, che esplode come… ” a neutron bomb” in “Wishlist”.

Il testo è una lista di desideri personali ed empatici che si traducono in amore. E’ il desiderio di essere l’esempio per i propri fan, il desiderio di essere per la persona che si ama, la normalità, come un souvenir che si tiene insieme alle chiavi di casa, o come quella canzone che passa alla radio, per cui si alza il volume (I wish I was a radio song, the one that you turned up).

La Band che sembrava finita, tocca cime altissime, fino al ’99, con la cove di “Last Kiss“, singolo uscito per raccogliere fondi destinati ai rifugiati in Kosovo; La canzone diventa la più grande “hit” della band!

I lavori successivi, a parte “Live on two legs”, un disco nato dalle registrazioni del tour mondiale del 1998 (a partire dal quale Matt Cameron, ex Soundgarden, prende il posto di Irons alla batteria), rientrano nei lavori un po’ troppo banali della band.

Binaural, uscito nel 2000, e Riot Act del 2002, due album assolutamente mainstream, nulla aggiungono alla storia dei Pearl Jam, se non un rinnovato e più esplicito impegno politico della band, che emerge dai testi dell’ultimo loro capitolo (“Bu$hleaguer” su tutte). 
Binaural si segnala per un cambio di produzione e per un tentativo, riuscito a metà, di rivestire i brani di un sound più avvolgente e caldo.

Il sound rock non aggiunge nulla di nuovo, fanno un po’ meglio le ballad (soprattutto “Light Years” e “Parting Ways”). Riot Act invece può vantare con “I Am Mine” atmosfere decisamente più cupe, come se alla rabbia del passato fosse subentrata una cupa rassegnazione, che comunque trova fede alla normale evoluzione, che vede infatti aggiungere alla Band un nuovo elemento, Kenneth Gaspar all’organo Hammond.

La Band non trova più spazio nei cd, ma riesce ancora ad incantare sul palco, riuscendo a creare atmosfere memorabili e qualità dei suoni mai mutate.

I Pearl Jam del 2000 sono una Live Band che ha più da dare sul palco che in sala prove. Vuoi per la vena ormai “limitata” al solo Vedder, vuoi per la lotta al monopolio dei prezzi Ticketmaster che ha creato comunque una sorta di ammirazione per la band. Nonostante qualche critica comunque i Pearl Jam rappresentano l’ultimo cavaliere del Seattle Sound, ed è ammirevole che quest’ultimo cavaliere comunque difenda un genere continuando il proprio lavoro nonostante le sensibili variazioni.

Nel 2006 esce l’omonimo Pearl Jam. Niente orientalismi stavolta, niente spoken-word o stravaganze sperimentali: ne esce un sound platealmente chitarristico, sanguigno, energico, vitale, feroce. La posta in gioco simbolica è il futuro dell’America “post 11-09”, la guerra in Iraq e le troppe scelte sbagliate fatte dall’amministrazione.

L’album richiama i primi due capolavori d’arte musicale, con brani come “Life Wasted”, “Worldwide Suicide” e “Comatose” testi “scorretti” e cattivi pieni di rabbia punk. “Severed Hand” e “Marker In The Sand” invece dimostrano un trasformismo vecchia maniera: la prima illude nella parte iniziale ma esplode, tra wah-wah e contromelodie di McCready; la seconda stravolge l’ostinato tribale della batteria e apre nel ritornello una finestra melodica piena di trasporto. Deliziosa, com’è del resto la successiva “Parachutes”, pop acustico stile Beatles, morbida e soffusa, con un organo a fare da sottofondo, o Come Back, vera ballad piena di forza ed eleganza quanto vibrante.
 Con “l’avocado Album” i Pearl Jam tornano ai loro fasti, facendo intendere che quei ragazzi cresciuti, vivono ancora negli strumenti e nei testi.

Nel frattempo Eddie Vedder si concede un riuscitissimo intermezzo solista, firmando la colonna sonora di Into The Wild, pluripremiato film di Sean Penn, tratto dal bestseller di Jon Krakauer sull’esperienza di vita di Christopher McCandless.

Vedder firma, un lavoro che è probabilmente quanto di meglio sia uscito dalla sua penna dai tempi di No Code. L’album, una sorta di sunto sulla vicenda di McCandless, è composto da undici brani brevi e concisi, adatti alla pellicola quanto a un ascolto che risulta fluido e mai stancante. Un rock-folk epico caldo e riflessivo, in pieno stile della voce di Vedder.

Arriva il loro ultimo lavoro, Backspacer, nel 2009, che testimonia la maturità dei testi del gruppo, che viene fuori con tocchi d’arte come Just Breathe, o The End, testimonianze di un Rock conservatore ma comunque maturo.

Gli ultimi cavalieri del Seattle Sound hanno messo al centro del proprio progetto la passione, la continua passione mai mutata per la musica, in maniera unica e fuori dal comune. Hanno toccato corde sempre interiori dell’io umano, e per i testi e per la musica; dalla rabbia, all’insofferenza, all’amore malinconico fino ad una quiete interiore. Regalare un disco dei Pearl Jam vuol dire inevitabilmente entrare in contatto con l’altra persona; si crea empatia, attraverso una musica che entra dentro e viene compresa allo stesso modo. E’ quello che la band ricrea, un legame tra noi e loro, e quindi un legame tra noi stessi. 
Il gruppo Grunge di Seattle, rappresenta a tutti gli effetti, una pietra miliare del Rock di ieri e di oggi.

di Ernesto D’Ambrosio All rights reserved 

Rubrica a cura di Pasqualino Marsico

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